Per la miseria
No, perché secondo me quando tu parli di miseria non sai mica bene cosa vuol dire quella parola lì. La miseria non è comprare una macchina di seconda mano o non poter andare in ferie per due settimane. La miseria è mangiare una castagna secca e non togliere il verme perché anche quello finisce nella pancia vuota. Io col vermetto ci giocavo con la lingua prima di buttarlo giù, ma non lo masticavo eh…
Facevamo tre o quattro sacchi di castagne che con i miei fratelli andavamo a rubare nei boschi di chi i boschi li aveva. Poi mio papà le faceva affumicare nel casotto in fondo al prato, per mandare via almeno una buona parte dei vermi. Noi andavamo a dormire lì quando affumicava, perché faceva un pelo più caldo e mi ricordo ancora quei vermetti che ci cadevano sulla testa. Sai che le castagne sono abbastanza buone anche da crude? E che non c’è un castagno che le faccia uguale a un altro? Ne conoscevamo uno che faceva proprio i marroni, enormi, e solo lui li faceva. Però adesso non mi parlare di castagne, che mi viene il nervoso a pensare alla pancia che brontolava e noi che potevamo mangiarne una o due al giorno.
Ho un altro esempio di miseria, se vuoi, tipo l’orto. Noi non avevamo un vero orto, anche se c’era un po’ di terra intorno a casa. Il pozzo era però spesso asciutto e la poca acqua la usavamo da bere, non certo a bagnare l’orto. E allora riuscivamo a fare solo qualche patata. Sai cosa facevamo, allora? Come le altre famiglie miserabili andavamo a piantare qualcosa vicino al rio, nella valle. Stavamo dietro a quei quattro cavoli e alla poca insalata per mesi e poi quando era ora di raccoglierla qualcuno ce la rubava. Le terra era di nessuno, cosa potevamo dire? I miei mi mandavano così di notte a rubare quella degli altri. Avevo una paura che le prime volte mi facevo la pipì addosso, poi mi sono abituato.
E io ero un maschio, quindi abbastanza fortunato. Pensa che le mie sorelle e le altre donne in casa mangiavano quello che avanzavano gli uomini, se avanzavano qualcosa. Sto male ancora adesso a pensare che avrei potuto lasciare qualcosa in più, ma avevo una fame terribile. Bollivamo persino le bucce delle patate, che se sono giovani sono abbastanza buone, ma quando sono vecchie sanno di foglie marce e penso che non facciano neanche tanto bene.
Te pensa che i ragazzi erano persino contenti di andare a soldato, perché almeno avrebbero mangiato due volte al giorno per diciotto mesi. Io manco il soldato ho potuto fare, per colpa dei miei piedi piatti. Manco il soldato. Che poi mi prendevano anche in giro per questa cosa e a me veniva un nervoso. In una maniera o nell’altra avevo sempre il nervoso. Mi viene anche oggi quando sento quelli che dicono che una volta si stava meglio. Ma fatevi furbi, va. Gli darei il verme delle castagne da mangiare a quelli.
O come quando sento certi bambini che fanno storie a lavarsi. Ma lo sai che noi eravamo proprio sporchi? Ti dicevo della poca acqua. Ecco facevamo il bagno due volte all’anno nella tinozza e tutti nella stessa acqua. Portavamo i mutandoni di lana in inverno e le donne li lavavano solo a inizio stagione; a Pasqua stavano in piedi da soli. Poi hanno aperto i bagni pubblici in città e lì ho visto per la prima volta la doccia. Che bella, ci andavo tutti i mesi.
In quel periodo mi era anche capitata una cosa bella che si chiamava Bea, per Beatrice. Lei anche l’ho persa per colpa della miseria. Era bellissima. Aveva i capelli neri, sempre raccolti in una trecciona. Una volta la vidi con i capelli sciolti, ondeggianti e lunghissimi, sembrava una ragazza di quei quadri grossi che ci sono nelle case dei film. Un’immagine che avevo sempre davanti agli occhi quando facevo l’amore, anche se con lei non l’ho mai fatto, per colpa della miseria.
Quando eravamo giovani noi, i nostri vecchi ci mandavano a lavorare nelle cascine o nelle case della gente che stava bene in città. I maschi nelle cascine e le femmine nelle case. Io potevo fare poco per colpa dei miei piedi piatti, ma nel periodo della vendemmia o del taglio dell’erba qualcosa trovavo anche io. E i padroni mica pagavano me, pagavano i vecchi. Mio papà però non era cattivo come gli altri papà e qualcosa mi dava. Lui sperava che andassi a bermi un bicchiere o due all’osteria, ma a me il vino non piaceva e nemmeno la gente dell’osteria, se è per questo. E allora compravo dei regali per Bea. Una volta le portai un vassoio di paste secche. Lo andammo a mangiare di nascosto in un prato, perché i suoi non volevano che le parlassi. Ecco, quelle paste mangiate con lei nel prato sono il momento più bello che ricordo. Ancora adesso mi piacciono quelle alla mandorla con la ciliegia candita in mezzo. Mi sto perdendo un po’, scusami.
Dicevo che la miseria me la portò via. Una sera che ero andato a trovarla, sempre di nascosto, mi disse che le avevano trovato un lavoro a Bergeggi. Al mare! Ma ci pensi? Quando l’avrei rivista? A quei tempi, senza macchina, ci volevano giorni per arrivare al mare. In paese le macchine erano quattro. Lei provava a consolarmi dicendo che sarebbe poi tornata. Ma chi è che torna dal mare dopo averlo visto per la prima volta? Infatti, non tornò, ma io la rividi lo stesso. Sì, perché credo proprio che fossi innamorato di lei, quelle sensazioni non le hais più provate per nessuno. Mi dicevo anche che avrei potuto rinunciare a lei pur pensandola felice. Dimmi te se non è amore questo. Secondo me sì.
Per farla breve, un giorno dissi ai miei che volevo andare alla fiera della Madonna, quella delle bestie e loro dissero di sì, pensando che stessi cominciando a pensare al mio futuro. Io invece andai al mare a salutare il mio passato, pensa te. Non sapevo nemmeno dove fosse Bergeggi, ma c’era una sola strada che portava al mare. Poi avrei chiesto a qualcuno. Mi ci vollero tre giorni, un male ai piedi che non ti dico. Poi non mi ero mica portato tanto da mangiare, giusto due pagnotte di pane. Era fine estate e rubai un po’ di uva, poca e quella più brutta, perché mi faceva pena chi aveva zappato quella vigna in quella terra impestata. Rubai anche qualche mela ancora verde. Passate le montagne avevo trovato dei fichi, di quelli neri. Mangiavo buccia e tutto. Una volta mi trovai il labbro gonfio perché c’era un vespa nel fico, che schifo, peggio del verme delle castagne. Oggi sembra niente rubare un po’ di frutta, ma all’epoca se ti beccavano, ti impallinavano e senza fare tanti complimenti. Comunque, al quinto giorno arrivai a Bergeggi, che non è tanto bella, però il mare invece è proprio bello. Sa di anguria il mare, lo sapevi? Almeno secondo me. Della parte bianca dell’anguria, ha quel profumo lì.
Il ristorante di Bea era subito lì, sarei entrato in tutti per trovarla e la trovai nel primo. E vidi subito Bea dietro il bancone, non era mica la cameriera. Lei fu stupita di vedermi e mi diede anche un piccolo abbraccio, ma non era felice come mi aspettavo. Mi viene un nervoso quando le cose non sono come quando te lo aspetti. Ma è sempre così, non lo sono quasi mai. Scambiammo qualche parola, quasi come fossimo estranei e poi arriva il padrone. E sai cosa fa il padrone? La abbraccia per i fianchi. Un nervoso che non ti dico. Però devo dire che furono gentili con me, mi offrirono addirittura il pranzo con una caraffa di vino da un litro. Fu la prima volta che mangiai il pesce e fu anche l’ultima. Per me il pesce sa di marcio. Comunque, a forza di parlare e di bere Genio, il padrone del ristorante, mi disse che lui era prima pescatore e poi ristoratore. Pescava le acciughe e poi le metteva nelle scatole di latta sotto sale. Si vede che Bea gli aveva parlato di me, della mia miseria e dei miei piedi piatti. Sta di fatto che mi propose di vendere le sue acciughe qui in mezzo alle nostre colline. Un mestiere che facevano i montagnini di Cuneo, quelli che parlano un dialetto che sembra il nostro, ma non si capisce niente.
Devi sapere che qui la strada era mica come oggi e come ti dicevo nessuno aveva la macchina. Era normale che i venditori ambulanti passassero casa per casa a vendere roba. Io avrei dovuto farlo con le latte di acciughe e l’olio di oliva; anche un po’ di sale grosso che lo vendevano solo i tabacchini. Pensa che Genio mi diede un bel carro a due ruote e un mulo e io avrei dovuto fare avanti e indietro. Al ritorno ogni tanto caricavo qualche barile di vino che piazzavo lì al ristorante. Ma poca roba, perché la discesa dalle montagne col vino era troppo pericolosa. Fu così che cominciai a vendere acciughe e olio. Una fatica che lasciamo perdere, ma quel mulo era proprio bravo, faceva tutto lui. Mi fermavo a dormire dove mi lasciavano, a me bastava la stalla. Poi cominciarono a conoscermi e facevano a gara per avermi la sera, perché io li facevo ridere con le mie storie e poi ero bravo a cantare. Mi ero anche fatto qualche morosa, ma tanto pensavo solo a Bea che intanto aveva fatto dei bambini con Genio. Mi hanno messo persino padrino del secondo, che hanno chiamato Matteo, come me.
Poi il mulo è morto è ho comprato un motocarro. Era un Guzzi che faceva un rumore che lo sentivi da chilometri di distanza. A me piaceva proprio per quello, perché la gente mi sentiva arrivare e mi aspettava in strada. Però mi ha fatto diventare mezzo sordo quel Guzzi. Le strade erano un po’ più belle e io facevo solo più un tappa tra qui e il mare. Mi chiamavano “Quello dell’olio” anche se io guadagnavo sulle acciughe. Ecco le acciughe sono l’unico pesce che mangio, ma non da sole. Nel bagnetto verde e nella bagna calda. Per il resto, zero pesce. Comunque, ho lavorato trent’anni così e sta casa qui l’ho fatta grazie alle acciughe. Però mi viene ancora un nervoso se penso a Genio che mette le braccia intorno a Bea…