Per pietà
"Che trent’anni sono lunghi. E poi secondo me una volta gli anni andavano più piano di adesso. Comunque, in trent’anni me ne sono successe di cose e più passa il tempo e meglio le ricordo, sarà la testa che cerca di mettere in ordine tutto prima di spegnere la luce. Ecco, se mi chiedessi una delle cose che mi ricordo di quel periodo prima col mulo e poi col motocarro ti risponderei con la storia dei tre giocatori di pallone. Ma non di futbal, dico il pallone quello che gli davi il pugno. Erano due fratelli e un cugino e messi insieme non facevano sessant’anni."
Cercavo di fare tre o quattro viaggi al mese. D’estate, se faceva bello, riuscivo anche a farne cinque, anche se qualche temporale mi prendeva sempre e ad agosto prendevo anche la tempesta*. E me ne accorgevo quando arrivava la tempesta eh, perché saliva aria calda dalla valle. Non facevo quasi mai in tempo a trovare un riparo e allora mi buttavo sotto il carro. E il mulo? Ti sarai chiesto del mulo, lui sotto il carro non ci stava. Ben, Oreste, l’avevo chiamato così, si prendeva tutta la tempesta e non diceva niente. Una volta è caduto come fulminato; uno gnocco di tempesta grosso come una patata lo aveva preso in testa e lui è svenuto. Fanno un rumore strano i muli quando cadono. Avevo paura che fosse morto e mi avesse lasciato lì a mezza montagna e invece quando è tornato il sole si è tirato su come se niente fosse stato. Oreste era fortissimo, ma anche io non scherzavo mica. Non mi stancavo mai e quando mi sentivo un po’ molle davo una golata al fiasco di bianco che mi davano dal mare: un pezzo di pane e qualche golata e andavo avanti per dei chilometri.
Ma non perdiamoci. Perché ti ho detto dei temporali? Perché quando piove non sai mai cosa succede su quelle montagne e sulle colline dietro. Non è come qua da noi, là la pioggia cade più forte. Sta magari due mesi senza fare una goccia e poi, tutto insieme, viene giù l’universo. E fa paura eh…Dei torrenti con l’acqua così bassa che le trote si incastrano in due ore diventano gialli e marroni e grossi che portano via le case. Non so come facciano le trote.
Sta di fatto che proprio a causa di una di quelle alluvioni lì, ci fu un pasticcio che non ti dico.
Non ricordo bene che mese fosse, ma credo settembre, perché qualcuno stava già vendemmiando; io arrivavo dal mare, mi servivano quasi due giorni per scollinare, c’era un punto che facevi una curva e il mare non lo vedevi più e lì c’era un paesino, che adesso è un paese bello e grande, dove mi fermavo sempre a passare la notte. Tutte case di pietra, all’epoca, si chiama San Bartolomeo. Ben, aveva piovuto tanto qualche giorno prima, ma proprio tanto, perché il rio era ancora grosso e giallo quando sono arrivato io. Vado all’osteria che aveva anche due o tre camere e quella volta lì era piena di gente, che invece non c’era mai nessuno di solito. Parlavano tutti sottovoce, ma non erano capaci e si capiva tutto, facevano come quelli che stanno dietro in chiesa e parlano sempre e fanno una vibrazione che sembra un organo.
Comunque quella volta lì mi sono seduto al tavolo, avevo portato Oreste nella stalla che si era addormentato subito, e mi sono messo ad ascoltare. Poi mi conoscevano e anche se erano dei montagnini mi consideravano dei loro e così non parlavano più sottovoce.
Per farla breve, c’era stata l’alluvione che aveva causato una frana sotto la strada, ma io non l’avevo ancora vista perché era nella parte in discesa per me, l’avrei vista il giorno dopo. Parlavano tutti degli Sturla, che erano saltati fuori i tre Sturla dopo quattro anni e che bisogna fare qualcosa.
“Ci andrebbe un carro”, diceva qualcuno, guardando me. In una situazione così non sai mica cosa fare. A te sembra facile, non so, ma io non sapevo se guardare la mia minestra o se dire “Pronti, io ci sono.” Quella sera mi concentrai sulla minestra, perché la storia non mi piaceva. Verso le dieci non c’era più nessuno, ma tutti, prima di andare via, avevano guardato verso di me. Stavo per andare a dormire, avevo deciso di guardare i miei affari e dimenticare quegli sguardi e le parole che li avevano preceduti. Maria, però, la padrona dell’osteria, aveva deciso il contrario.
“Vuoi sentirla la storia degli Sturla?”
E cosa dici a uno che ti fa una domanda così? Non si può fermare qualcuno che vuole raccontare una storia. Non si può e poi ero anche un po’ curioso. E adesso te la racconto io quella storia, come me l’ha raccontata Maria e, come ti dicevo, non puoi fermarmi.
Erano i fratelli Tiberio e Remo Sturla e il cugino Fabio; avevano venti, diciotto e sedici anni. Tu sai che su quelle montagne e colline era pieno di partigiani e anche dopo la guerra ci furono dei pasticci senza senso. Secondo la storia, gli Sturla non si unirono ai partigiani, un po’ perché non gli importava molto e un po’ forse perché i genitori avevano simpatie per l’altra parte.
Io sapevo bene da che parte sarei stato, ma con questi piedi piatti cosa vuoi che facessi. Un nervoso che lascia stare.
E nei miei viaggi ne ho incontrati di partigiani e anche di fascisti maledetti.
Tutti e due mi rubavano le acciughe o il sale; non mi portavano proprio via tutto, ma quattro o cinque latte sì, insieme a qualche chilo di sale. Un nervoso. I partigiani non avevano neanche un soldo da mettersi in un occhio, ma quelli neri con le loro divise che facevano ridere ne avevano, ma non davano niente. Ricordo invece che una volta i partigiani mi hanno lasciato una giacca imbottita e un’altra un coniglio. Le mie acciughe valevano di più, ma io avevo apprezzato il gesto.
Mi perdo sempre quando racconto, porta pazienza.
Gli Sturla non erano stati partigiani dicevo, e questo nel 1945 poteva essere considerato un crimine serio. Sta di fatto che a luglio, due mesi dalla fine della guerra, parte una spedizione punitiva dal paese per trovarli. Loro erano a lavorare in uno di quei campi stretti e lunghi di montagna, in mezzo alle patate rosse; li prendono e li portano un po’ più su, dove la strada fa due tornanti. Senza dire beh gli sparano in testa. Poi li mettono dentro a tre sacchi di iuta, chissà perché poi, e li sotterrano neanche a due metri di profondità. Da quel giorno nessuno aveva più parlato di quel fatto.
Finita la storia, faccio per andare su a dormire e Maria, sottovoce, mi fa: “Sì, ma la storia dei partigiani è mica quella giusta, eh…”
Io rimango lì e Maria, una donnona più grossa di me e con i capelli sempre in aria, continua a raccontare.
“La guerra non c’entra niente”, mi dice.
Gli Sturla erano giocatori di pallone, quello che gli tiri i pugni. Erano in una squadra che vinceva tutto, insieme a Gianni Pila, che lui era morto davvero da partigiano. Lassù giravano dei gran soldi intorno a quello sport. Poco prima della guerra c’era stata una partita importante, una finale o qualcosa del genere e gli Sturla erano i favoriti. Tutto il paese aveva puntato su di loro, ma anche tanti soldi. E cosa fanno loro? Vendono la partita per tre mucche, lasciando letteralmente in mutande almeno tre persone. Tre di quei partigiani. Ecco perché la guerra fa ancora più schifo, perché vengono poi sempre fuori i soldi, altro che patria e libertà.
Ma non finisce mica qui. No, no.
Il mattino dopo mi trovo cinque di quei paesani che mi aspettano fuori dell’osteria.
“Matteo”, mi fanno. “Abbiamo bisogno di un favore. Dobbiamo far sparire questi tre sacchi.”
Sapevano che sapevo, ma non dissero altro. Volevano che li caricassi sul mio carro e che li buttassi nel primo burrone fuori dal paese. In cambio avrebbero comprato per sempre le mie acciughe.
Ci mettemmo d’accordo per la notte successiva. Non volli denaro. Caricai quei sacchi che pesavano niente e mi incamminai con Oreste e con il pensiero delle famiglie Sturla che non avevano mai saputo del destino dei loro figli. Certo il sospetto era da tempo concreto, ma il lumicino della speranza continuava ad illuminare la loro paura.
Io sapevo dove abitavano gli Sturla, me lo aveva detto Maria, una casa lunga divisa in due, con un piccolo giardino anch’esso diviso da una siepe di bosso puzzolente. E sai cosa ho fatto?
Sono uscito dal paese, ho fatto un po’ di strada fino a dove era buio totale e mi sono fermato. Non era notte di luna ed era proprio scuro tutto intorno. Ho aspettato un po’, dando qualche golata al mio bianco, finché fui sicuro che non ci fosse più nessuno in giro. Ho detto a Oreste di aspettare, non lo legavo mai, perché lui faceva sempre quello che dicevo. Mi sono messo i sacchi in spalla, che tanto non pesavano niente e mi sono incamminato verso la casa degli Sturla. Non mi dimenticherò più il rumore delle ossa che sbattevano tra di loro. Sapevo chi c’era dentro i sacchi perché erano segnati con la lettera iniziale dei loro nomi, li avevano segnati così con la calce, ho mai capito perché. Una T, una R e una F, anche fatte male.
E allora ho fatto piano piano e li ho appoggiati davanti alle porte di quella casa lunga. Si vedeva niente, forse era perfino nuvoloso quella notte. E da quel paese non sono mai più passato, un po’ perché avevo paura di fare la fine di quei tre e un po’ perché io le acciughe non le volevo vendere a gentaglia così. Ho dovuto cambiare poi strada, che era anche più lunga di quasi una giornata, ma amen.
C’è una cosa che mi viene ancora il nervoso a pensarci, perché non sono mai stato sicuro di aver messo i sacchi davanti alle porte giuste. Ma tanto è lo stesso, no? Cosa dici?